Il Discorso del Re (2011)

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USCITA CINEMA: 28/01/2011
REGIA: Tom Hooper
SCENEGGIATURA: David Seidler
ATTORI: Colin Firth, Guy Pearce, Helena Bonham Carter, Timothy Spall, Geoffrey Rush, Jennifer Ehle, Derek Jacobi, James Currie...
FOTOGRAFIA: Danny Cohen
MONTAGGIO: Tariq Anwar
MUSICHE: Alexandre Desplat
PRODUZIONE: See Saw Films, Bedlam Productions
DISTRIBUZIONE: Eagle Pictures
PAESE: Australia, Gran Bretagna 2010
GENERE: Drammatico, Storico
DURATA: 111 Min

Trama:
All'inizio c'è la lingua che non articola un suono e un vuoto di parole davanti alla folla che guarda stranita il Principe di York (e suo futuro re), “torturato” da un microfono. Le guance si irrigidiscono, contorcendosi cercando di superare una debilitante balbuzie. Poi c'è la moglie (la futura longeva regina madre) che, come una persona normale, va alla ricerca di un “medico” che possa permettere al marito di “fare discorsi in pubblico” senza incespicare sul palato.
A questo punto possiamo fermarci qui, in quanto, il resto è improntato tra il rapporto che si instaura tra il principe ed il suo logopedista che, come un giocoliere, gli impone allenamenti vocali con parolacce e urla liberatorie, perché il blocco della lingua e anche (soprattutto) un blocco psicologico. Il riottoso (e riluttante) erede al trono (per abdicazione) stenta di stare al gioco, poi accetta l'impresa arrivando perfino a riappriopriarsi della propria voce e raggrumare su di se l'Inghilterra intera nei giorni bui della seconda guerra mondiale.
Giocato tutto sulla capacità recitativa di Colin Firth e Jeffery Rush, il film fila via un po' a stento, riprendendosi e ingrandendosi nel discorso finale del Re. La prima parte, quella in cui si affilano le lame tra il Re tartaglione ed il logopedista (che nasconde un mistero), è un po' farraginosa, ma serve a capire come, quello che sarà Giorgio VI, è un uomo schiacciato dalla forte personalità di un padre autoritario e dal magnetismo del fratello Eduardo, principe innamorato che abdicherà per sposarsi una donna divorziata (Wallis Simpson). Il tartagliare, i vuoti di parole, la mancanza di sicurezza, se da uno parte lo rendono più umano, dall'altra scavano nella sua inadeguatezza e nell'insicurezza a regnare. Colin Firth, dicevamo, è molto abile a applicare su di sé le smorfie, le sue incertezze, le sue limitazioni legate all'uso fluente della parola, che lo rendono uno dei migliori intepreti britannici dell'ultima generazione. Ma oltre la gara tra attori, quello che colpisce è la messa in scena, con un'ottima ricostruzione storica, buoni costumi e una Londra d'antan in procinto di cadere nel baratro di una guerra che la priverà di un impero secolare. Tom Hopper dirige un ottimo dramma da camera sobrio e mai sopra le righe, sapendo dosare il conflitto interiore di un uomo in conflitto con la sua “lingua” e il mondo che lo circonda. Perché la fiducia in se stessi passa attraverso l'orchestrazione (ma non solo) di una seduta psicoanalitica e dall'accettazione delle proprie debolezze.

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